Mabruchismo: una poco conoscuita storia di violenza coloniale e patriarcale

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di Andrea Tarchi, Euromix ricercatore PhD, 1 luglio 2021

Ragazze libiche su una cartolina coloniale.

In generale, gli italiani non pensano molto al passato coloniale del paese. Ogni evento recente che sembri indicare una correlazione con le vecchie pratiche coloniali, come l’attuale crisi della detenzione di immigrati, viene liquidato dai media come scollegato da un tempo lontano.1 Sulla scia delle proteste di Black Lives Matter che hanno coinvolto il mondo nel 2020, un evento ha cambiato questo stato di cose, provocando una rara copertura mediatica. È giugno 2020, e diverse manifestazioni a Milano prendono di mira la statua del famoso giornalista Indro Montanelli a causa del suo coinvolgimento in una relazione di madamato con una minorenne eritrea durante l’invasione italiana dell’Etiopia nel 1936.2 Il madamato era una forma di concubinato coloniale, o pratica di convivenza forzata, che coinvolgeva uomini italiani e donne dell’Africa Orientale durante tutta la presenza italiana nella regione. Anche se il madamato è la forma più studiata di incontro intimo violento che ha caratterizzato il colonialismo italiano, era poco conosciuto dal grande pubblico.3  In una rottura con il solito disinteresse pubblico per le questioni legate al colonialismo italiano, il dibattito che ha seguito le proteste del 2020 ha innegabilmente puntato il dito contro il madamato, con un numero considerevole di giornali e siti web che hanno spiegato la pratica ai loro lettori.

Mentre questo aumento d’attenzione è senza dubbio un risultato positivo dell’intero dibattito pubblico su Montanelli e il madamato, una tale retorica focalizzata corre il rischio di inquadrare il madamato come una pratica eccezionale specifica della presenza coloniale italiana in Africa Orientale. Questa narrativa, a sua volta, rischia di nascondere il fatto che il madamato fosse solo un risultato pratico delle pervasive strutture di potere patriarcali e razziste che caratterizzarono l’Italia coloniale e che ancora influenzano la nostra società.  Per questo motivo, in questo blog, voglio parlare di un’altra forma meno conosciuta e poco studiata di violenza sessuale razzista e patriarcale: la pratica del mabruchismo o concubinaggio coloniale imposta alle donne libiche dagli ufficiali dell’esercito italiano. Anche se meno praticato del madamato, il mabruchismo esemplificava le strutture di potere razziste e patriarcali che caratterizzavano il potere coloniale italiano in Libia. Data la crescente notorietà del madamato fornita dal rumore mediatico intorno alla statua di Montanelli, è più importante che mai aggiungere questa triste pagina alla storia di violenza e oppressione che ha caratterizzato la storia coloniale italiana.

 

Concubine libiche per ufficiali italiani

Il termine mabruchismo trova la sua origine nel nome arabo Mabroukah, uno dei nomi di battesimo più comuni dati all’epoca alle donne libiche. La sua origine risale all’inizio della presenza militare italiana nel territorio nordafricano nel 1911. Sebbene il comando militare dell’esercito italiano avesse emanato l’ordine di rispettare i costumi della popolazione locale per sedare la feroce ribellione che accolse le truppe italiane al loro arrivo, gli ufficiali italiani iniziarono a prendere fin da subito ragazze libiche come concubine. Vediamo qui la prima contraddizione che caratterizzò la politica italiana nella colonia appena invasa. Da un lato, il comandante in capo dell’esercito Carlo Caneva voleva trasmettere un rispetto retorico verso le tradizioni libiche affermando che “le donne libiche sono solitamente tenute lontane dalla vita pubblica, e gli indigeni ne sono orgogliosamente gelosi. Così, tutti devono astenersi da qualsiasi atto nei loro confronti, il che include anche il guardarle.”4 D’altra parte, però, la convinzione che “gli uomini, in particolare i soldati, avessero bisogno di uno sfogo per le loro energie (etero)sessuali e che l’esercito dovesse fornire loro del sesso ‘sicuro'”5 spinse il comando a permettere agli ufficiali di prendere donne libiche come concubine. È solo il 1916 quando troviamo la prima traccia di mabruchismo in un ordine circolare inviato al governatore della Cirenaica da un ufficiale:

Ho ragione di credere che alcuni ufficiali che risiedono nella colonia abbiano assunto donne indigene come concubine permettendo loro di vivere nella propria casa, o sistemandole in un’abitazione vicina, o permettendo loro di vivere ancora con le loro famiglie […]. Il regolamento di disciplina militare considera inaccettabile qualsiasi forma di concubinaggio. Tale divieto deve essere seguito ancora più rigorosamente nell’ambiente coloniale per ovvie ragioni di dignità e decoro degli ufficiali.6

Anche se questo ordine sembra coerente con la posizione degli italiani riguardo al rispetto delle donne libiche, bisogna sottolineare che nessun ufficiale fu punito in Libia per aver preso donne come concubine prima del 1931. Ciò che era più urgente per gli amministratori coloniali non era far rispettare la disciplina militare, ma mantenere l’immagine di una potenza colonizzatrice attenta alle tradizioni locali riguardo alla sfera privata. Nonostante tutti i proclami riguardanti il rispetto dei costumi musulmani e delle donne libiche, l’approvazione del mabruchismo continuò fino l’ascesa al potere del fascismo e almeno fino agli anni trenta. La retorica e le politiche dei primi anni di governo fascista in Libia assomigliavano molto ai precedenti governi liberali, con gli italiani che si ritraevano come protettori della popolazione libica. Nel frattempo, il fascismo si impegnò in brutali operazioni militari per reprimere la resistenza anti-coloniale. Alla fine, grazie alle tattiche militari del generale Rodolfo Graziani, i cui risultati gli garantiranno il titolo di vicegovernatore della colonia, insieme al pesante uso di armi tossiche illegali, la resistenza fu completamente schiacciata.

 

La proibizione del Mabruchismo in una colonia segregata

Non è un caso che le prime punizioni militari contro il mabruchismo avvennero solo nel 1931, quando la militarizzazione della colonia cominciò lentamente a placarsi per il compimento della repressione della resistenza libica. L’anno 1932 avrebbe visto le prime ondate della colonizzazione demografica di massa della Libia, che comportò la deportazione dei cirenaici che abitavano le terre fertili nei campi di concentramento e l’arrivo di molti coloni italiani.7 Il nuovo contesto caratterizzato da unnumero consistente di coloni, unito alla svolta fascista verso l’ideologia e la politica razzista e segregazionista negli anni ’30, portò a un vero e proprio divieto del mabruchismo. Dal 1931, iniziamo a vedere ufficiali italiani che vengono denunciati al comando militare della colonia per aver preso donne libiche come concubine:

Un comandante di guarnigione responsabile di un campo di concentramento per indigeni ha trovato due ufficiali impegnati in relazioni sentimentali con le donne indigene del campo di concentramento.8

Un ufficiale, che era in servizio in un campo di concentramento, si intrattenne in una trattativa con una donna indigena sul prezzo da pagare per i favori di sua figlia, agendo quindi in modo lesivo della dignità di un ufficiale.9

Mentre era in servizio in un forte vicino a un campo di concentramento sotto il controllo dell’Autorità Politica, un ufficiale iniziò a negoziare con un indigeno prigioniero il prezzo da pagare per il possesso di sua figlia.10

Non ci vuole molto perché Graziani, capo militare fascista nella regione e esecutore della politica segregazionista del fascismo nella nuova colonia demografica, prenda provvedimenti contro una pratica non più ammissibile. In questa circolare del 1932, intesa come risposta ai rapporti citati, Graziani fornisce un quadro completo della nuova posizione del regime sul mabruchismo:

Ho rimpatriato quattro ufficiali (uno di loro recentemente) perché hanno fatto transazioni finanziarie (o comunque negoziato vigorosamente) per acquisire donne indigene per tenerle per sé come concubine. Questo mabruchismo è una delle piaghe che infestavano la colonia. Ce ne sono ancora alcune tracce, o meglio, alcune nostalgie; tuttavia, intendo sradicarlo.11

Graziani definisce il mabruchismo “una delle piaghe che hanno infestato la colonia”, confermando così che gli ufficiali rimpatriati non erano i primi ad avere concubine nella colonia ma solo i primi ad essere puniti ufficialmente. Tale sviluppo era dovuto al fatto che la colonia era diventata uno spazio per coloni italiani, il che comportava la necessità per gli amministratori fascisti di essere meno tolleranti verso le intimità che superavano i confini razziali. Graziani ebbe un ruolo nella repressione del mabruchismo e del madamato nell’Africa orientale italiana.12 Fu l’uomo scelto dal fascismo per porre fine alle pratiche di sesso interrazziale nelle colonie italiane, dove la purezza razziale degli italiani era più a rischio. La proibizione o la tolleranza del mabruchismo oscillava secondo i piani politici delle amministrazioni italiane e le mutevoli ideologie, con un totale disprezzo per i costumi locali o per le donne libiche, qualunque fosse la retorica nei loro confronti.

Anche se non registrabile attraverso le voci delle donne libiche assenti dagli archivi, il carattere di sfruttamento del mabruchismo è chiaro dalle fonti analizzate. Sappiamo dalle sanzioni agli ufficiali che i loro genitori vendettero alcune di loro agli italiani, altre devono essere state rapite, altre ancora potrebbero essere state ex prostitute o schiave in cerca di maggiore sicurezza economica. Possiamo supporre che tutte queste ragioni, o una combinazione di queste, possano averle portate a lasciare le loro famiglie molto più che l’amore o l’affetto per gli ufficiali italiani che le tenevano come concubine, sebbene anche questo possa essere stato possibile. Alla fine, ciò che è certo è che furono destinatarie della violenza patriarcale coloniale da parte degli ufficiali italiani che le comprarono per il loro comfort sessuale e domestico, mentre venivano usate come pedine politiche dalle varie amministrazioni coloniali. Il loro sfruttamento fu formalmente proibito solo quando il partito fascista italiano si orientò verso un’ideologia razzista e segregazionista, rendendo il sesso interrazziale completamente inaccettabile in Italia e nell’impero.

 

Conclusione

In risposta al dibattito pubblico sulla statua di Montanelli e la memoria del madamato, un giornalista del quotidiano di destra “Il primato nazionale” scrisse che “coloro che condannano Montanelli insieme all’usanza del madamato, dovrebbero lodare allo stesso tempo il regime fascista, poiché ha messo fine a questa pratica.”13 Questo ragionamento mette in evidenza l’ignoranza che la maggior parte dei media italiani e il pubblico hanno riguardo al colonialismo italiano. Mabruchismo e madamato furono proibiti dal regime non a causa di una improvvisa epifania sulla loro intrinseca violenza. Furono terminati perché il nuovo contesto ideologico e materiale del regime non poteva più permettere queste relazioni. In ogni caso, la proibizione, la tolleranza o addirittura l’approvazione di queste pratiche seguiva esclusivamente le esigenze politiche, ideologiche e materiali dei colonizzatori, con un totale disinteresse per le donne colonizzate sulle quali esercitavano la loro violenza.

Il dibattito pubblico sulla statua di Montanelli ha avuto il merito di evidenziare l’ignoranza e l’ipocrisia del pubblico italiano sul passato coloniale del paese. Esaminando la controparte libica del madamato, meno conosciuta e studiata, questo blog ha cercato di aggiungere un po’ più di sfumature e complessità a questa fase della storia italiana. Prima di impegnarsi in un altro dibattito infruttuoso e superficiale sulla memoria delle celebrità che si sono impegnate in pratiche coloniali, sarebbe meglio che il pubblico italiano fosse consapevole di come anche le pagine più oscure della storia d’Italia abbiano creato il paese così come è oggi.

 

Bibliografia

Barrera, G. 2004. ‘Sex, Citizenship and the State: The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea.’ In Gender, Family and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, edito da P. Wilson, 157-172. Londra, Palgrave Macmillan.

Bryder, L. 1998. ‘Sex, Race, and Colonialism: An Historiographical Review.’ The International History Review 20 (4): 806-822.

Campassi, G. 1987 ‘Il madamato in Africa Orientale. Relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale.’ Miscellanea di storia delle esplorazioni (12): 219-260.

Cresti, F. 2011. Non desiderare la terra d’altri: la colonizzazione italiana in Libia. Roma: Carocci Editore.

Del Boca, A. 2011. Italiani, brava gente?. Vicenza: Neri Pozza Editore.

Ponzanesi, S. 2012. ‘The Color of Love: Madamismo and Interracial Relationships in the Italian Colonies.’ Research in African Literatures 43 (2): 155-172.

Sòrgoni, B. 1998. Parole e corpi: antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea: 1890-1941. Napoli: Edizioni scientifiche Italiane.

Abbattere statue in Italia e il dibattito pubblico del paese sulla sua memoria coloniale

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di Andrea Tarchi, Euromix ricercatore PhD, 17 luglio 2020

Indro Montanelli in Etiopia nel 1936.

L’uccisione di George Floyd, avvenuta a Minneapolis il 25 maggio 2020 per mano della polizia, ha scatenato un’ondata di proteste transnazionali guidate dal movimento Black Lives Matter. Le proteste, che inizialmente hanno bersagliato i sistemi di disuguaglianza razziale e la brutalità della polizia inerenti agli Stati Uniti, hanno attraversato in poco tempo l’Atlantico e hanno trovato la loro articolazione nel contesto europeo. Mentre da un lato le proteste hanno affrontato principalmente le strutture di disuguaglianza razziale contemporanee che trovano le loro radici nella storia coloniale dell’Europa,dall’altro hanno anche preso di mira uno specifico campo simbolico. In particolare, si sono concentrate sulle statue che ancora valorizzano e celebrano quelle figure che hanno avuto un ruolo vitale nell’istituzione e nella proliferazione della tratta degli schiavi e delle economie coloniali. Non è la prima volta che questo tipo di statue vengono attaccate dai manifestanti – il caso più famoso è il movimento Rhodes Must Fall del 2015.1 La differenza è che ora le statue vengono veramente abbattute, come esemplificato dall’ormai famoso caso di la statua di Edward Colston a Bristol.2 Questa ondata di proteste contro i simboli del colonialismo e della schiavitù ha raggiunto anche l’Italia, colpendo in modo specifico la statua di un famoso giornalista italiano, Indro Montanelli, il quale ebbe un rapporto di concubinato con una minorenne eritrea durante l’invasione italiana in Etiopia del 1936. La storia di Montanelli, tanto quanto il dibattito sulla sua statua e le proteste che ha innescato, rappresentano uno spaccato estremamente esemplificativo della società italiana e del rapporto che ha tuttora con il suo passato coloniale. Alla luce della richiesta di giustizia razziale seguita all’uccisione di George Floyd, il dibattito pubblico italiano sulla statua di Montanelli fa luce sulla mancanza di riflessioni sul passato coloniale italiano e sugli effetti che ancora ha sul suo sistema contemporaneo di disuguaglianze.

Il concubinato coloniale: simbolo della violenza intersezionale del colonialismo

Durante l’espansione coloniale europea, gli ufficiali e i funzionari coloniali bianchi appartenenti alla borghesia spesso intrattenevano rapporti sessuali con donne razzializzate nelle colonie, in una pratica ampiamente sostenuta da secoli come mezzo per fornire agli uomini bianchi benestanti lontano da casa uno sbocco sessuale più dignitoso della prostituzione. Poiché la pratica era così esemplificativa delle relazioni di potere razziale, di genere e di classe insite nei contesti coloniali, era diffusa in tutte le colonie in momenti e continenti diversi. I casi di concubinato studiati nei contesti delle colonie spagnole (McKinley 2014), olandesi (Ming 1983, Stoler 2002) e inglesi (Ballhatchet 1980, Hyam 1986) sono solo alcuni esempi della ricerca che testimonia l’estrema diffusione della pratica. Le colonie italiane non fecero eccezione, come attestano le ricerche condotte da Sòrgoni (1998) e Barrera (2002) sulla specifica forma di concubinato tra ufficiali italiani e donne eritree conosciuta come madamato. Come per gli altri contesti coloniali, le relazioni miste di concubinato erano incoraggiate dagli amministratori coloniali italiani, i quali spesso spingevano gli ufficiali dell’esercito a prendere una donna locale come concubina come mezzo di conforto sessuale e domestico.

Uno di questi ufficiali schierati nell’Africa Orientale durante l’invasione italiana dell’Etiopia (1935-1937) fu Indro Montanelli, un ufficiale toscano che, come tutti sanno, in tempo divenne uno dei giornalisti più celebri della storia del giornalismo italiano. L’allora tenente di 24 anni fu incaricato dal suo superiore di “affittare”3 dai suoi genitori una bambina Bilena di 12 anni di nome Fatima (ma ribattezzata dallo stesso Montanelli Destà) come concubina. Dopo essere diventato famoso nell’Italia repubblicana post-fascista, Montanelli ha ricordato la sua concubina in più occasioni senza rinnegare il suo comportamento di colonizzatore maschio bianco nei confronti della sua concubina razzializzata. In un’occasione, quando gli fu chiesto da un conduttore televisivo, si vantò in termini sprezzanti di “aver scelto bene”,4 mentre nella sua colonna nel Corriere anni dopo descrisse i suoi critici come ” imbecilli, ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vec­chia.”5 Non sorprende che queste dichiarazioni abbiano provocato critiche da parte di attivisti e intellettuali, con l’evento ampiamente considerato nel discorso mediatico italiano come una macchia nella carriera di un uomo brillante. Questa macchia, tuttavia, non impedì al comune di Milano di erigere una statua in suo onore nel centro storico della città nel 2002, un anno dopo la morte del giornalista.

Com’era prevedibile, la statua ha suscitato molte critiche da parte di varie associazioni femministe, LGBT+, e anti-razziste nel corso degli anni, visto la natura impenintente con cui il giornalista continuò a ricordare le sue relazioni sessuali con la bambina eritrea. Tali critiche sono riemerse bruscamente il 13 giugno 2020, a seguito delle proteste mondiali innescate dall’uccisione di George Floyd. La statua è stata “vandalizzata”: alla sua base, un gruppo di studenti che ha rivendicato l’azione, ha scritto “razzista, stupratore”, e l’ha coperta di vernice rossa. In un video successivamente pubblicato dagli studenti, è  stato richiesto l’abbattimento definitivo della statua.6 I manifestanti hanno identificato la statua di Montanelli come il simbolo della celebrazione di un individuo che esercitò senza patemi d’animo un’estrema violenza sessuale coloniale su di un bambina. Come per le statue a Bristol e negli Stati Uniti, agli occhi dei manifestanti la statua di Montanelli rappresenta un chiaro simbolo dei lasciti razzisti e patriarcali del colonialismo.

Perche e’ ancora importante: il dibattito pubblico italiano sulla memoria del colonialismo

L’azione degli attivisti ha suscitato un dibattito mediatico sul valore della statua e dello stesso giornalista. I difensori dei valori dell’uomo celebrato dalla statua basano principalmente la sua apologia su di una vecchia argomentazione che i ricercatori del colonialismo italiano conoscono molto bene. Tale argomento ruota attorno alla minimizzazione del legame che lega la società italiana contemporanea al suo passato coloniale. In questo caso, la declinazione di questa argomentazione si basa sulla normalizzazione della pratica del concubinato durante il colonialismo, la quale, come detto, fu ampiamente incoraggiata dagli amministratori coloniali. In questo senso, Marco Travaglio, un influente giornalista contemporaneo, ha sostenuto che Montanelli era “un figlio del suo tempo” e che “giudicare i fenomeni storici con gli occhi di qualche decennio dopo non ha alcun senso.”7 Un altro editorialista di prim’ordine come Beppe Severgnini è intervenuto per sottolineare come “quella vicenda — non esemplare, certo — non rappresenta l’uomo, il giornalista, le cose in cui ha creduto e per cui s’è battuto”.8 La protesta degli studenti milanesi è stata di breve durata e non ha mai raggiunto la massa critica richiesta per far rimuovere la statua. Allo stesso modo, il dibattito pubblico sul valore della statua e sul suo significato storico per la nostra società è scomparso nel giro di poche settimane. Tuttavia, sia la protesta che il dibattito che ha innescato mettono in luce la sconnessione ancora rilevante tra il passato coloniale italiano e la nostra società contemporanea.

Da un lato, la protesta in sé è esemplificativa della qualità del discorso pubblico italiano sul suo passato coloniale e presente postcoloniale. L’obiettivo della furia iconoclasta degli attivisti italiani non è stato quello che ci si sarebbe potuti aspettare: figure come Benito Mussolini, per la sua politica coloniale e imperiale e l’emissione di leggi razziali, o anche figure del partito fascista come il criminale di guerra Rodolfo Graziani , l’architetto dell’omicidio di massa di decine di migliaia di libici ed etiopi (Del Boca, 2005), non sono state toccate dalla protesta. È stato detto che l’Italia è disseminata di monumenti fascisti, il che rende scoraggiante affrontarli, o addirittura, che sono così “fusi” con il contesto da diventare quasi normalizzati, invisibili.9 D’altra parte, il dibattito pubblico esemplificato dai due articoli citati consolida la realtà del distacco dell’Italia di oggi dai suoi orrori passati. Dal punto di vista dei suoi difensori, ciò che Montanelli fece prima di diventare quello per cui è tuttora famoso, gli atti razzisti che ha commesso in un momento storico in cui erano socialmente accettabili, non dovrebbero offuscare l’opinione pubblica di lui. L’assorbimento di una parte del passato fascista italiano, come le infrastrutture e le eredità del welfare fascista da un lato, e la rimozione collettiva dei suoi orrori dall’altro, fanno parte della stessa rimozione del fascismo e della memoria coloniale dal discorso pubblico italiano. Come scritto dal primo studioso postcoloniale italiano, Angelo del Boca, il razzismo in Italia è “un prodotto della totale negazione delle atrocità coloniali, della mancanza di dibattito sul colonialismo e della sopravvivenza, nell’immaginario collettivo, di convinzioni e teorie di giustificazione “(Del Boca 2003, 34).

La mancanza di dibattito pubblico sul colonialismo italiano e sulla sua eredità si esprime continuamente nei sistemi di potere materiali e discorsivi che riproducono le gerarchie e i significati del patriarcato e della supremazia bianca in Italia. Inoltre, collega tali sistemi di potere a quella che Lombardi-Diop chiamava “la non razzialità dell’Italia postcoloniale” (Lombardi-Diop 2012, 176), secondo la quale gli italiani si vedono come “non marcati a livello razziale” e quindi raramente consapevoli del loro privilegio razziale di fronte a persone razzializzate. In questo contesto, la questione riguardante Montanelli e la sua statua è  rivelatrice su più livelli. Pur mettendo in risalto l ‘”afasia coloniale”10 (Stoler 2011) della società italiana e la sua incapacità di ponderare adeguatamente il suo passato coloniale, sottolinea anche quanto la società italiana abbia incorporato l’eredità del colonialismo nelle sue strutture di potere contemporanee.  D’altra parte, la rilevanza temporanea della protesta che si erge come un’isola di consapevolezza in un oceano di silenzi e negazioni rivela l’infertilità del dibattito pubblico italiano rispetto al suo passato e presente razzista. La storia di Montanelli e Fatima, sebbene esemplificativa degli assi intersezionali di oppressione del colonialismo e del suo retaggio contemporaneo, non può essere l’unico punto di discussione pubblica in una società che considera ancora il suo passato coloniale come marginale. Un dibattito più ampio, nel quale la storia coloniale italiana sia messa in primo piano nell’analisi degli assi intersezionali d’oppressione che tormentano ancora la società italiana, era ed è ancora molto necessaria.

 

Bibliografia

Ballhatchet, Kenneth. Race, Sex, and Class Under the Raj: Imperial Attitudes and Policies and Their Critics, 1793-1905. London: Weidenfeld and Nicolson, 1980.

Barrera, Giulia. “Colonial Affairs: Italian Men, Eritrean Women, and the Construction of Racial Hierarchies in Colonial Eritrea (1885-1941).” Ph.D. diss., Northwestern University (Evansville, Ill.), 2002.

Del Boca, Angelo. 2003. “The Myths, Suppressions, Denials, and Defaults of Italian Colonialism.” A Place in the Sun: Africa in Italian Colonial Culture from Post-Unification to the Present, edited by Patrizia Palumbo, 17-36. Berkeley: University of California Press.

Del Boca, Angelo. Italiani, brava gente?. Vicenza: Neri Pozza Editore, 2011.

Hyam, Robert. “Concubinage and the Colonial Service: The Crewe Circular (1909). The Journal of Imperial and Commonwealth History, 14(3), (1986): 170–186.

Lombardi-Diop, Cristina. 2012. “Postracial/Postcolonial Italy.” In Postcolonial Italy, edited by Cristina Lombardi-Diop and Caterina Romeo, 175-190. New York: Palgrave Macmillan.

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Ming, Hanneke. “Barracks-Concubinage in the Indies, 1887-1920.” Indonesia, no. 35 (1983): 65-94

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Stoler, Ann Laura. Carnal Knowledge and Imperial Power: Race and the Intimate in Colonial Rule. (University of California Press, 2002), 44-45.

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‘Mixture’ in Italian Libya: Gaps in Academic Literature and Public Memory

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by Andrea Tarchi, Euromix PhD Researcher, 14 January 2019

General Graziani leading a military column into the oasis of Cufra during the final stages of the pacification of Cyrenaica (1931, anonymous author).

During the final stages of the “pacification” of the Libyan resistance to the Italian colonial rule, on May 17, 1932, General Rodolfo Graziani sent a circular for the repatriation of four Italian soldiers from his seat of Vice-Governor of Cyrenaica (one of the three administrative divisions of modern-day Libya, alongside Tripolitania and Fezzan) in Benghazi. In the same document, the General addresses also an issue that he apparently regards as greatly important:

“This ‘mabruchismo’ [relations of concubinage between Italian men and Libyan women, from the Arabic expression to indicate women, mabrukah] is one of the plagues that infested the colony. There are still some traces of it, or better still some nostalgia of it, however I intend to eradicate it completely. That is because, beyond political considerations (I refer to all the speculations that the indigenous world loves to do in regard to our relationship to their women), the only disciplinary side of it is sufficient to condemn it and deprecate it.”

Circular 2935, May 17, 1932.1

One of the main architects of Fascism’s colonial policies in Cyrenaica and Tripolitania, General Rodolfo Graziani was without a doubt the most trusted man by Mussolini in the military management of the Italian colonies. Nicknamed “the butcher of the Fezzan” because of his use of violence in the repression of the Libyan resistance, Graziani perfectly embodied the totalitarian political paradigm of Fascism, as he deeply believed in the hierarchical structures of power of the Fascist government and enforced its political will ruthlessly. What appears to be so relevant in this short excerpt of the circular is therefore the level of anxiety that such a key personality in the history of fascist colonialism attaches to the phenomenon of ‘mixed’ sexual relationships within the Libyan colonies.

But what was the real relevance of the phenomenon of ‘mixed’ relationships within the colonial world? Why is it so important to study its role within the Libyan context? This blog tries to answer these questions while underlying the reasons that brought me to start researching this topic and the hopes I have regarding the impact that such study could have on both the academic world and the Italian public debate over its colonial history.

Management of interracial sexuality in the academic literature

Far from being an isolated case, the management of sexuality in the colonies has always been one of the main points of concern for the European colonial elites in different parts of the world. Sexuality is in fact recognized as the fundamental field where differences of gender, race and class were constructed in the colonial political economy, while ‘mixture’ can be described as the very category that confuses such categories, therefore making their construction apparent. The many examples of research that has been conducted especially on the Dutch (Locher-Scholten2, Stoler3), British (Levine4) and French (Taraud5) colonial contexts regarding the role of the management of sexuality and ‘mixture’, have empirically shown such fundamental ties between the creation of social hierarchies in our contemporary world and the production of colonial categories.

The relevance given by the academic tradition to the regulation of sexuality and ‘mixture’ in the colonial context appears to be true also for the historiography on Italian colonialism. The works of Sorgoni (19966), Barrera (20027) and on a smaller scale of Ponzanesi (20128), focusing on interracial relationships in the colony Eritrea, represent important contributions in the field. However, there is no similar analysis done for the Libyan colonies, which seem to have been mostly ignored by the academic literature in this regard. Scholars engaged in the field of ‘mixture’ in the colonies have suggested that “in the Libyan colonies, apparently- as testified by the silences of archives, institutions and contemporary observers – there was not a consistent and widespread anxiety regarding ‘mixture’ and mixed children as it instead was in Eritrea first and Ethiopia next” (Spadaro 2013, 319). However, the very creation of a specific term for the kind of concubinage that was typical of the Libyan colonies (‘mabruchismo’) indicates the undeniable widespread presence of the phenomenon. Furthermore, the strong feelings towards it of a man like Graziani surely convey the presence of at least some form of anxiety regarding it in the colonial ruling classes, an anxiety that most definitely lead to forms of regulation of the phenomenon

‘Mixture’ in colonial Libya and Italian national identity

Besides the already noticed evident research gap, it seems important to research the management of sexuality and ‘mixture’ in the Libyan context for several other important reasons. First of all, it is important to analyze how sexuality was managed in the colony in order to unveil the intertwining between the construction of colonial categories and the relations between the colony and metropole. This type of analysis has been carried out for the Italian Eastern African colonies, but not for Libya, implying that there is a piece of the puzzle missing from a thorough analysis of the colonial heritage of modern Italian society. An analysis of the management of ‘mixture’ in Libya, one that would relate its regulations to both the people involved in them and the way they were represented in the public discourse, could give an interdisciplinary outlook on the history of the Italian domination on the Libyan territories.

Moreover, by uncovering such weaving it would be possible to add another perspective to the role that the regulation of ‘mixture’ played in the construction of an ideal of Italian whiteness, relating it to the already studied Eritrean and Ethiopian contexts. Indeed, when Italy invaded Libya in 1911, the identification of the Italian nation with a specific race took hold of the collective imagination in a definitive manner. The racialized differences between North and South Italy that had plagued the Italian nations for the first decades of its existence were sedated under the repressive and centralized policies of the State. Re (2010, 1010) called the Libyan War a “turning point” for the assertion of the Italian national identity as white and modern, as it represented the first colonial enterprise framed as a demographic, almost proletarian expansion. As the Italian political elites were framing the colonial enterprise in Libya as a such, it is hard not to see the repercussions that the management of sexuality and ‘mixture’ in such context would have on the idea of an Italian national identity itself. Ultimately, the formation of Italian national identity rested on the construction of dominant subjects that conformed to standards forged along standards of masculinity, whiteness, and modernity. Leaving out the role that the management of the Libyan colonies in such process cannot but represent an incomplete analysis of the colonial roots of Italian national identity, an incompleteness that still reverberates in contemporary Italian society.

The colonization of Libya in Italian public memory

Theoretical considerations aside, a research on the management of ‘mixture’ in colonial Libya could have repercussions on the collective memory of those thirty years of colonial domination, so relatively short but also so relevant. Libya was often represented as a “white” Italian colony, where the iron fist of Fascism managed to create a segregated society and a demographic colonization designed to counteract the decades-long “big shame” of Italian emigration towards “whiter” countries. It therefore comes as no surprise that the former colony still holds this kind of representation in Italian collective memory. A quick internet search reveals that “Italian-Libyans” are still considered to be those Italians who settled to the Libyan colony after its pacification and managed to live there until Qaddafi sent them back to the peninsula as a retaliation for the colonial past.11 This concealment of ‘mixture’ in the Libyan context, which finds its roots in the years of Fascist racial hygiene, can be explained by a politically contingent need to frame the Italian colony as impermeable to racial mixing. This representation of colonial Libya is still strong in the imaginary of Italian people, who often consider the colonial era as a marginal event in the history of the Italian nation. The creation of a strong, monolithic idea of the Italian nation through the painful process of the Italian Unification, which is still alive and well in the Italian public discourse, isn’t compatible with the processes of racial ‘mixing’ and cultural hybridizing typical of any colonial enterprise. ‘Mixture’ seems to be therefore erased from the dominant representations of Libyan colonial society, resulting in a fictitious reality where the cultural and social promiscuity inherent to any colonial setting are not even considered. Colonial Libya is still represented as a fixed, tidy and compartmentalized society that could not be further away from the reality of colonial life, where settlers and natives, defying the colonial elites’ attempts to define hierarchical systems of certainty, intermingled and lived together, married and had children.

For these reasons ‘mixture’ in Libya most definitely is an extremely relevant and understudied field of research that needs to be dealt with extensively. I will attempt to collect personal stories of ‘mixed couples’ and ‘mixed children’, stories of prostitution, concubinage, and the attempts to regulate such phenomena in the colonial Libyan context. The ambitious aim of the research is to depict a complex and understudied social reality and the effects that the regulation of ‘mixture’ had on the shaping of social categories in the contemporary Italian context. My hope is that one day, also thanks to my research, the recognition of the role that ‘mixture’ played in the definition of the idea of the Italian nation will be fully acknowledged.

Relazioni interraziali nella Libia coloniale. Lacune nella letteratura accademica e nella memoria pubblica

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di Andrea Tarchi, Euromix ricercatore PhD, 14 gennaio 2019

Il generale Graziani guida una colonna militare nell’oasi di Cufra durante le ultime fasi della pacificazione della Cirenaica (1931, autore anonimo).

Il 17 maggio 1932, durante le fasi finali della “pacificazione” della resistenza libica al dominio coloniale italiano, il generale Rodolfo Graziani inviò una circolare per il rimpatrio di quattro soldati italiani dalla sua sede del vice-governatore della Cirenaica [uno delle tre divisioni amministrative della Libia moderna, a fianco di Tripolitania e Fezzan] a Bengasi. Nello stesso documento, il generale affronta anche un problema che a quanto pare considerava di estrema importanza:

“Questo ‘mabruchismo’ [rapporti di concubinato tra uomini italiani e donne libiche, dall’espressione araba per indicare il termine donna, mabrukah] è una delle piaghe che hanno infestato la colonia. Ci sono ancora alcune tracce di esso, o meglio ancora qualche nostalgia di esso, tuttavia ho intenzione di sradicarlo completamente. Questo perché, al di là delle considerazioni politiche (mi riferisco a tutte le speculazioni che il mondo indigeno ama fare riguardo al nostro rapporto con le loro donne), l’unico aspetto disciplinare è sufficiente per condannarlo e deprecarlo.”

Circolare 2935, 17 maggio 19321

Uno dei principali artefici delle politiche coloniali del fascismo in Cirenaica e Tripolitania, il generale Rodolfo Graziani fu senza dubbio l’uomo più fidato di Mussolini nella gestione militare delle colonie italiane. Soprannominato “il macellaio del Fezzan” a causa del suo uso della violenza nella repressione della resistenza libica, Graziani incarnava perfettamente il paradigma politico totalitario del fascismo, poiché credeva profondamente nelle strutture gerarchiche del potere del governo fascista imponendo le relative direttive in maniera spietata. Ciò che sembra così rilevante in questo breve estratto della circolare è quindi il livello di preoccupazione che una personalità così importante nella storia del colonialismo fascista attribuisca al fenomeno delle relazioni sessuali miste all’interno delle colonie libiche.

Ma quale era la reale rilevanza del fenomeno delle relazioni “miste” all’interno del mondo coloniale? Perché è così importante studiarne il ruolo all’interno del contesto libico? Questo blog cerca di rispondere a queste domande, sottolineando le ragioni che mi hanno portato ad iniziare una ricerca su questo argomento e le speranze che ho riguardo all’impatto che tale studio potrebbe avere sul mondo accademico e sul dibattito pubblico italiano relativo alla sua storia coloniale.

Gestione della sessualità interrazziale nella letteratura accademica

Lungi dall’essere un caso isolato, la gestione della sessualità nelle colonie è sempre stata uno dei principali punti di preoccupazione per le élite coloniali europee in diverse parti del mondo. La sessualità è infatti riconosciuta come il campo fondamentale in cui le differenze di genere, razza e classe sono state costruite nell’economia politica coloniale, mentre le coppie “miste” possono essere descritte come il fenomeno che confonde tali categorie, rendendo così evidente la loro costruzione. I numerosi esempi di ricerca che sono stati condotti in particolare sui contesti coloniali olandesi (Locher-Scholten2, Stoler3), britannici (Levine4) e francesi (Taraud5) sul ruolo della gestione della sessualità e delle relazioni “mister”, hanno mostrato empiricamente tali fondamentali legami tra la creazione di gerarchie sociali nel nostro mondo contemporaneo e la produzione di categorie coloniali.

La rilevanza data alla regolamentazione della sessualità e delle relazioni “miste” nel contesto coloniale sembra essere riconosciuta anche dalla storiografia sul colonialismo italiano. I lavori di Sorgoni (19966), Barrera (20027) e in minor misura di Ponzanesi (20128), incentrati sulle relazioni interrazziali nella colonia Eritrea, rappresentano importanti contributi al campo accademico in questione. Tuttavia, non vi è alcuna analisi simile fatta per le colonie libiche, le quali sembrano essere state per lo più ignorate dalla letteratura accademica in questo riguardo. Studiosi  impegnati nel campo del meticciato nelle colonie hanno suggerito che “nelle colonie libiche, apparentemente – come testimoniano i silenzi di archivi, istituzioni e osservatori contemporanei – non c’era un’ansia consistente e diffusa riguardo alle relazioni interraziali come in Eritrea e poi in Etiopia” (Spadaro 2013, 319). Tuttavia, la creazione stessa di un termine specifico per il tipo di concubinato tipico delle colonie libiche (‘mabruchismo’) indica l’innegabile presenza diffusa del fenomeno. Inoltre, i forti sentimenti verso la sessualità interrazziale di un uomo come Graziani sicuramente trasmettono la presenza di almeno qualche forma di ansia da parte delle classi dominanti coloniali, un’ansia che sicuramente portò a forme di regolamentazione del fenomeno.

Coppie miste in Libia e l’identità nazionale italiana

Oltre alle già evidenti lacune nella tradizione accademica, appare necessario condurre un’approfondita ricerca sulla gestione della sessualità e delle coppie “miste” nel contesto libico per diversi altri importanti motivi. Prima di tutto, è importante analizzare come la sessualità fu gestita nella colonia al fine di svelare l’intreccio tra la costruzione di categorie coloniali e le relazioni tra la colonia e la metropoli. Questo tipo di analisi è stato condotto per le colonie italiane del Corno d’Africa, ma non per la Libia, il che implica la mancanza di un tassello fondamentale nell’analisi dell’eredità coloniale della società italiana moderna. Un’analisi della gestione delle relazioni “miste” in Libia, una che sia capace di collegarsi sia alle persone coinvolte in esse sia al modo in cui erano rappresentate nel discorso pubblico, potrebbe dare una prospettiva interdisciplinare sulla storia della dominazione italiana sul territori libici.Inoltre, scoprendo tale tessitura, sarebbe possibile aggiungere un’altra prospettiva al ruolo che la regolamentazione delle relazioni interraziali ha giocato nella costruzione di un ideale di bianchezza italiana, collegandolo ai contesti eritrei ed etiopi già studiati. Infatti, quando l’Italia invase la Libia nel 1911, l’identificazione della nazione italiana con una specifica razza si impadronì dell’immaginario collettivo in modo definitivo. Le differenze razzializzate tra il Nord e il Sud Italia che avevano afflitto la nazione Italiana durante i primi decenni della sua esistenza furono sedate sotto la politica repressiva e centralizzante dello Stato unitario. Re (201010) definì la guerra libica un “punto di svolta” per l’affermazione dell’identità nazionale italiana come bianca e moderna, poiché riuscì a rappresentare la prima impresa coloniale come un’espansione demografica, quasi proletaria. Poiché le élite politiche italiane stavano inquadrando l’impresa coloniale in Libia come tale, è difficile non vedere le ripercussioni che la gestione della sessualità e del meticciato in tale contesto avrebbe sull’idea stessa di un’identità nazionale italiana. In definitiva, la formazione dell’identità nazionale italiana poggiava sulla costruzione di soggetti dominanti che si conformavano a standard forgiati secondo ideali di mascolinità, bianchezza e modernità. Tralasciare il ruolo che la gestione delle colonie libiche ebbe in tale processo non può che rappresentare un’analisi incompleta delle radici coloniali dell’identità nazionale italiana, un’incompletezza che ancora risuona nella società italiana contemporanea.

La colonizzazione della Libia nella memoria pubblica italiana

Considerazioni teoriche a parte, una ricerca sulla gestione della sessualità e del meticciato nella Libia coloniale potrebbe avere ripercussioni sulla memoria collettiva di quei trent’anni di dominazione coloniale, così relativamente breve ma anche così rilevante. La Libia era spesso rappresentata come una colonia italiana “bianca”, dove il pugno di ferro del fascismo era riuscito a creare una società segregata e una colonizzazione demografica destinata a contrastare la “grande vergogna” dell’emigrazione italiana verso paesi più “bianchi” quali gli USA. Non sorprende quindi che l’ex-colonia conservi ancora questo tipo di rappresentazione nella memoria collettiva italiana. Una rapida ricerca su Internet rivela che gli “italo-libici” sono ancora considerati quegli italiani che si stabilirono nella colonia dopo la sua pacificazione e riuscirono a vivere lì fino a quando Gheddafi li rimandò nella penisola come rappresaglia per il passato coloniale11. Questo occultamento del meticciato e delle relazioni “miste” nel contesto libico, il quale trova le sue radici negli anni della pulizia razziale fascista, può essere spiegato da un bisogno politicamente contingente di rappresentare la colonia italiana come impermeabile alla “mescolanza” razziale. Questa rappresentazione della Libia coloniale è ancora forte nell’immaginario degli italiani, i quali considerano spesso l’era coloniale come un evento marginale nella storia della nazione italiana. La creazione di un’idea della nazione italiana forte e monolitica attraverso il doloroso processo dell’Unità d’Italia, che è ancora viva e vegeta nel discorso pubblico italiano, non è compatibile con i processi di “miscelazione” razziale e ibridazione culturale tipici di qualsiasi impresa coloniale. Le relazioni “miste” sembrano quindi essere cancellate dalle rappresentazioni dominanti della società coloniale libica, risultando in una realtà fittizia in cui la promiscuità culturale e sociale inerente a qualsiasi ambiente coloniale non è nemmeno presa in considerazione. La Libia coloniale è ancora rappresentata come una società fissa, ordinata e compartimentalizzata, rappresentazione che non potrebbe essere più lontana dalla realtà della vita coloniale, dove coloni e nativi, sfidando i tentativi delle élite coloniali di definire sistemi gerarchici di certezza, si mescolavano e vivevano insieme, si sposavano e avevano figli.Per questi motivi, la sessualità e il meticciato in Libia sono sicuramente campi di ricerca estremamente rilevanti, poco studiati e che dovrebbero essere affrontati in modo estensivo. Cercherò di raccogliere storie personali di “coppie miste” e “bambini misti”, storie di prostituzione, concubinato e tentativi di regolare tali fenomeni nel contesto coloniale libico. L’ambizioso obiettivo della ricerca è di rappresentare una realtà sociale complessa e di capire gli effetti che la regolamentazione delle coppie “miste” ha avuto sulla formazione delle categorie sociali nel contesto italiano contemporaneo. La mia speranza è che un giorno, anche grazie alla mia ricerca, il riconoscimento del ruolo che le coppie “miste” ha giocato nella definizione dell’idea della nazione italiana sarà pienamente riconosciuto.